A ME GLI OCCHI

a cura di

Luiza Samanda Turrini


(_/knowledge/__/communication/__/sense/__art/_)


_ percezione _ chiave di volta della conoscenza 

_ sguardo _ strumento della comunicazione più sottile 

_ vista _ senso umano più sviluppato 


L’occhio può essere considerato l’emblema del fare arte. 


(_/truth/__/tresholds/__/mirror/__/beauty/__/precious/__/sex/__/desire/__/movement/__/untouchable_/) 


Rispetto al corpo visibile, l’occhio è una porzione molto piccola, ma è anche la più difficile da piegare alla menzogna. È il limite fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori. La membrana di confine. 

Lo specchio rivelatore di ciò che non si deve sapere. 

Fragile. Potentissimo. Tutta la bellezza del volto si concentra lì.  

L’occhio è il gioiello più prezioso del corpo. Strapparsi gli occhi è metafora della castrazione. Tagliare l’occhio di una ragazza con un rasoio significa, prima che ucciderla, deflorarla. Tutto il desiderio passa attraverso gli occhi. La vista soffia sul fuoco del desiderio. Non possiamo sapere che cosa desideriamo se prima non lo abbiamo visto. Lo sa bene la parte più animale del cervello umano, e lo sanno ancora meglio tutti i maghi del marketing. 

L’occhio è costantemente mobile. Anche durante il sonno fluttua nella fase rem. Sotto alle palpebre chiuse di una persona che dorme si possono vedere i tondi delle pupille, oscillare da una parte all’altra con ritmo da ipnosi. 

L’occhio presuppone la distanza della messa a fuoco. 

Nulla lo deve toccare, altrimenti si infetta. L’occhio deve essere isolato. Stare solo. La vista è un organo di senso freddo. Distaccato.

La macchina fotografica, la camera scura, sono dispositivi replicanti dell’occhio. Funzionano nello stesso modo. 


(_/vision/__/belief/__/media/__/culture/_)  


Il presupposto di ogni opera artistica è la facoltà della visione. Prima di passare attraverso gli arti, attraverso la manualità, prima ancora di essere temprata dall’intelletto, l’arte ha una fase di incubazione pre-logica, in cui l’artefice guarda e sente il mondo. In cui il mondo si rovescia attraverso i suoi occhi. 

Nella lingua geroglifica, l’occhio è il verbo “ir”, vedere, ma anche creare. 

L’occhio è il simbolo di dio di una delle religioni rivelate. Del sole, che getta sguardi su tutto il mondo. Della totalità della conoscenza dei Boddhisatva. Dei Massoni. Di tutte le teorie cospirazioniste. Del logo del Grande Fratello. 

L’occhio è il pegno richiesto dal Mago della Sabbia. L’ornamento dei divi del muto. Un’inquadratura ricorrente di Blade Runner. 

Storia. Iconologia. Simbologia religiosa. Paccottiglia trash. Tormentone mediatico. Palude inconscia. L’occhio è ovunque.




--------------------------------------------------------UMOR VITREO-----------------------------------------------------------


Gli occhi di Giacomo Deriu e Lara Mezzapelle sono degli scudi campionati. La forma quadrangolare in cui sono iscritti contrasta con il velo d’acqua che li ricopre, elemento per eccellenza morbido e privo di asperità. Gocce d’acqua cadono sulla loro superficie secondo una scansione temporale oscillatoria. 

L’occhio è chiuso. La goccia cade sulla superficie dell’acqua, che ondeggia e si increspa in forme vellutate. L’occhio si apre. Poi torna a chiudersi. Si chiude con movimento lento, come se dovesse scivolare nel sonno. Una veglia imperturbabile a qualsiasi scalfitura, anestetizzata da un morbido scudo, alternata ad un sonno in cui si assimila (o si disperde) ciò che è stato ricevuto. Ogni occhio ha il suo recinto. Delimitato da una cornice di vetro. Piccola. Resistente. Non si nota, ma c’è. Volendo si può scavalcare con molto facilità, entrando in un altro punto di vista.

Nelle pupille sono proiettate immagini del mondo, aggiunte in fase di post produzione. 

Quest’opera è come un recinto simbolico. Riflette l’instabilità sociale, affettiva, epistemologica del nostro tempo. L’ipertrofia della vista. La narcosi. L’isolamento. Il trionfo dell’effimero, dell’incerto. In cui tutto si modifica prima di solidificarsi. In cui tutta la conoscenza e la percezione è liquida. 

Acqua, luce, vetro, riflessi. Che si compongono attorno ad uno dei simboli più totalizzanti dell’iconosfera. 

La proiezione, madre del cinema, da cui deriva l’esplosione di immagini che ci circonda, si connette a due regimi del pensiero strettamente imparentati. Da una parte la meraviglia illusionista, la fantasticheria derivante dalle grandi narrazioni. Dall’altra  l’inganno, il desiderio abortito, che non si realizza se non come miraggio della mente, riflesso negli altri.  La proiezione è  in ogni caso una procedura imprescindibile di qualsiasi rappresentazione.

Luiza Samanda Turrini